Con ordinanza
n. 24368 del 10 agosto 2023, la prima sezione civile della Corte di Cassazione
ha affermato che l'art. 13, comma 13, D.L.vo 25 luglio 1998, n. 286, come
modificato dall'art. 2, comma 1, lett. c), n. 2, D.L.vo 8 gennaio 2007, n. 5,
in attuazione della direttiva 2003/86/CE, nel prevedere che «lo straniero
destinatario di un provvedimento di espulsione non può rientrare nel territorio
dello Stato senza una speciale autorizzazione del Ministero dell'interno»,
stabilisce espressamente, al secondo periodo, che «la disposizione di cui al
primo periodo del presente comma non si applica nei confronti dello straniero
già espulso ai sensi dell'art. 13, comma secondo, lett. a) e b), per il quale è
stato autorizzato il ricongiungimento, ai sensi dell'art. 29».
In conformità
di tale disposizione, la Suprema Corte ha avuto modo di affermare che
l'adozione del provvedimento di autorizzazione al ricongiungimento non trova
ostacolo nella circostanza che lo straniero, beneficiario di detto
provvedimento, sia stato precedentemente raggiunto da un decreto di espulsione,
e sussista quindi il divieto di fare rientro nel territorio italiano, a
condizione che il decreto di espulsione non sia stato emesso per ragioni
connesse alla pericolosità sociale dello straniero (cfr. Cass. civ., sez. I, 28
febbraio 2008, n. 5324).
Tale principio non risulta peraltro applicabile alla fattispecie in esame, la quale è caratterizzata dalla circostanza che il rientro nel territorio italiano non è stato preceduto dalla formale presentazione della domanda di autorizzazione al ricongiungimento familiare, ad opera del familiare residente in Italia, né conseguentemente dal rilascio del nullaosta prefettizio previsto dall'art. 29, commi 7 e 8, D.L.vo n. 286 del 1998, ma solo dal rilascio dell'autorizzazione prevista dall'art. 5, comma secondo, lett. l), dell'ordinanza del Ministero della salute 29 luglio 2021, recante «Ulteriori misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell'emergenza epidemiologica da Covid-19», la quale non ha efficacia sostitutiva degli ordinari titoli di soggiorno contemplati dalla disciplina in tema di immigrazione, ma risponde esclusivamente all'esigenza di assicurare il controllo dei flussi di persone in ingresso nel territorio nazionale, per finalità di prevenzione sanitaria collegate alla diffusione del predetto virus. In tema di espulsione, la Suprema Corte ha tuttavia affermato che l'art. 13, comma 2-bis, D.L.vo n. 286 cit., il quale impone di tener conto, nei confronti dello straniero che ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare, della natura e dell'effettività dei vincoli familiari, della durata del soggiorno, nonché dell'esistenza di legami con il paese d'origine, dev'essere interpretato, in linea con la nozione di diritto all'unità familiare delineata dalla giurisprudenza della Corte EDU con riferimento all'art. 8 CEDU e fatta propria dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 202 del 2013, nel senso che esso trova applicazione, con valutazione da condursi caso per caso ed in coerenza con la direttiva comunitaria 2008/115/CE, anche al cittadino straniero che abbia legami familiari nel nostro Paese, ancorché non si trovi nella posizione di richiedente formalmente il ricongiungimento familiare (cfr. Cass. civ., sez. I, 22 gennaio 2019, n. 1665; Cass. civ., sez. I, 15 gennaio 2019, n. 781; Cass. civ., sez. I, 2 ottobre 2018, n. 23957).
Tale interpretazione è destinata ad assumere indubbiamente rilievo anche nel caso in esame, in cui si discute della legittimità di un provvedimento espulsivo adottato nei confronti di una cittadina straniera che, pur avendo fatto ingresso nel territorio nazionale in violazione del divieto derivante da un altro decreto di espulsione precedentemente emesso a suo carico, ha fatto valere, a sostegno dell'opposizione, il vincolo di coniugio intrattenuto con un altro cittadino straniero residente in Italia, che le avrebbe consentito di richiedere il nullaosta al ricongiungimento familiare, in deroga al predetto divieto. Ai fini del rigetto dell'opposizione, il Giudice di pace non avrebbe dunque potuto limitarsi a dare atto dell'esistenza del decreto di espulsione precedentemente emesso nei confronti della ricorrente e della mancata presentazione dell'istanza di autorizzazione al ricongiungimento familiare, ma avrebbe dovuto procedere alla verifica della sussistenza in concreto delle condizioni cui la legge subordina la realizzazione del diritto all'unità familiare, prendendo in esame, conformemente alle indicazioni fornite dalla citata giurisprudenza di legittimità, tutti gli elementi qualificanti l'effettività del vincolo familiare allegato (rapporto di coniugio, durata del matrimonio, nascita di figli e loro età, convivenza, dipendenza economica dei figli maggiorenni, etc.), oltre alle difficoltà conseguenti all'espulsione, e restando invece esclusa, al di fuori della valorizzazione in concreto di questi elementi, la possibilità di fare riferimento ai criteri suppletivi relativi alla durata del soggiorno, all'integrazione sociale nel territorio nazionale, ovvero ai legami culturali o sociali con il Paese di origine.
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