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Le pene sostitutive introdotte dalla Riforma Cartabia: un’occasione persa per il superamento della dimensione «carcerocentrica»

Autore: Valerio de Gioia
Data: 21 Marzo 2024

Con sentenza n. 11980 del 30 novembre 2023-21 marzo 2024, la sesta sezione penale della Corte di Cassazione è intervenuta in tema di pene sostitutive. L'art. 95, D.L.vo 10 ottobre 2022, n. 150 ha previsto che la disciplina introdotta dalla riforma Cartabia in materia di pene sostitutive sia applica bile anche ai processi in corso all'entrata in vigore della disciplina normativa (30 dicembre 2022) che si trovino in primo grado e in appello. Nei confronti degli stessi trova dunque applicazione il disposto dell'art. 545-bis c.p.p., il cui comma 1 stabilisce che «Quando è stata applicata una pena detentiva non superiore a quattro anni e non è stata ordinata la sospensione condizionale, subito dopo la lettura del dispositivo, il giudice, se ricorrono le condizioni per sostituire la pena detentiva con una delle pene sostitutive di cui all'articolo 53 della legge 24 novembre 1981, n. 689, ne dà avviso alle parti». Dunque, l'applicazione delle pene sostitutive avviene attraverso un meccanismo articolato, con dispositivo c.d. a struttura bifasica, in cui il giudice, valutata discrezionalmente, alla stregua dei parametri di cui all'art. 133 c.p., la ricorrenza delle condizioni per l'accesso dell'imputato alle pene individuate dall'art. 20-bis c.p. - la cui disciplina è contenuta negli artt. 53 e ss., L. n. 689 del 1981 - instaura una fase di contraddittorio con le parti stesse e, ove necessario, con l'apporto dell'ufficio esecuzione penale esterna, definisce ed applica la pena più adeguata, dettagliandone obblighi e prescrizioni. Deve considerarsi che un cospicuo indirizzo, espresso tra le altre da Cass. pen., sez. VI, 10 maggio 2023, n. 33027, ha affermato, in relazione alla disciplina transitoria di cui all' art. 95, D.L.vo cit., che «affinché il giudice di appello sia tenuto a pronunciarsi in merito all'applicabilità o meno delle nuove pene sostitutive delle pene detentive brevi di cui all'art. 20-bis c.p., è necessaria una richiesta in tal senso dell'imputato, da formulare non necessariamente con l'atto di gravame, ma che deve comunque intervenire, al più tardi, nel corso dell'udienza di discussione in appello». Si è ritenuto, in tale arresto, che l'applicabilità delle nuove pene sostitutive - in quanto più favorevoli - ai giudizi di appello in corso all'entrata in vigore del D.L.vo n. 150 del 2022, senza l'introduzione di limitazioni attinenti alla fase - introduttiva o decisoria - del giudizio medesimo e, quindi, senza imporre che la richiesta sia contenuta nei motivi - originari o aggiunti - del gravame, risulti conforme al contenuto letterale della disposizione e si ponga «nella linea di favorire, in conformità con l'intentio legíslatoris, la più ampia applicazione delle nuove pene sostitutive, ove il giudice di appello ritenga ne ricorrano i presupposti suindicati». A supporto di tale ermeneusi, la pronuncia richiama la Relazione illustrativa al D.L.vo n. 150 del 2022, la quale ha evidenziato che «Tale tipologia di sanzioni si inquadra come è noto tra gli istituti - il più antico dei quali è rappresentato dalla sospensione condizionale della pena - che sono espressivi della c.d. lotta alla pena detentiva breve; cioè del generale sfavore dell'ordinamento verso l'esecuzione di pene detentive di breve durata. È infatti da tempo diffusa e radicata, nel contesto internazionale, l'idea secondo cui una detenzione di breve durata comporta costi individuali e sociali maggiori rispetto ai possibili risultati attesi, in termini di risocializzazione dei condannati e di riduzione dei tassi di recidiva. Quando la pena detentiva ha una breve durata, rieducare e risocializzare il condannato - come impone l'art. 27 della Costituzione - è obiettivo che può raggiungersi con maggiori probabilità attraverso pene diverse da quella carceraria, che eseguendosi nella comunità delle persone libere escludono o riducono l'effetto desocializzante della detenzione negli istituti di pena, relegando questa al ruolo di extrema ratio. La Costituzione, nel citato art. 27, parla al comma 3, al plurale, di "pene" che devono tendere alla rieducazione del condannato. Non menziona il carcere e, comunque, non introduce alcuna equazione tra pena e carcere. La pluralità delle pene, pertanto, è costituzionalmente imposta perché funzionale, oltre che ad altri principi (es., quello di proporzione), al finalismo rieducativo della pena». In una medesima prospettiva di graduale superamento della dimensione "carcerocentrica", la Corte costituzionale, con sentenza n. 25 del 2024, ha valutato favorevolmente - perché rispettosa del principio della retroattività della lex mitior, da ricondurre all'area di tutela degli artt. 3 e 117, comma 1, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 7 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo - la linea interpretativa per cui, ai fini dell'applicabilità del regime transitorio previsto dall'art. 95 cit. deve considerarsi «pendente innanzi la Corte di cassazione» qualsiasi processo che, alla data di entrata in vigore della riforma, fosse stato definito dalla corte d'appello mediante la pronuncia del dispositivo: e, dunque, anche quei processi nei quali sia ancora pendente il termine fissato dal collegio per il deposito delle motivazioni, ovvero nei quali sia pendente il termine per il ricorso per cassazione (Cass. pen., sez. V, 28 giugno 2023, n. 37022; Cass. pen., sez. VI, 21 giugno 2023, n. 34091) rilevando come tale direttrice, costituente oramai diritto vivente, sia «espressiva di un principio generale dell'ordinamento, per di più di rango costituzionale: quello, cioè, secondo cui le norme più favorevoli in materia di sanzioni punitive devono, di regola, essere applicate retroattivamente a tutti i processi in corso. Sicché l'interpretazione analogica adottata dalla Corte di cassazione costituisce, al tempo stesso, (doverosa) interpretazione costituzionalmente conforme della disposizione censurata». Ciò sulla considerazione che la «chiara intenzione del legislatore fosse quella di assicurare la possibilità di accedere alle nuove pene sostitutive a tutti i processi in corso sino alla loro definizione con sentenza irrevocabile: possibilità assicurata, anche negli interstizi non coperti dal dato letterale del prodotto legislativo». A fronte di un'interpretazione tendenzialmente estensiva della disciplina transitoria, la Corte territoriale ha disatteso nella sentenza impugnata la richiesta di applicazione della pena sostitutiva, perché generica e tardiva, in ragione sia della mancata specificazione dell'ente disponibile a ricevere le prestazioni lavorative dell'imputato, sia della qualità delle allegazioni che dovrebbero documentare la ricerca dell'ente stesso, le quali consistono in una generica richiesta di disponibilità, inoltrata la stessa mattina dell'udienza, a quattro associazioni, delle quali non è dato conoscere la riconducibilità alle categorie previste dall'art. 56-bis, L. 24 novembre 1981, n. 689, sfornita di qualsiasi indicazione sul profilo dell'imputato e sulla sua posizione processuale. In tal modo - anche in violazione del favor legislatoris per l'applicazione di una disciplina in bonam partem che ha valenza soprattutto sostanziale - la Corte territoriale ha fatto applicazione di una decadenza all'accesso alla pena sostitutiva, che non ha fondamento nel dato normativo. Essa non trova riscontro, in particolare, nell'art. 545-bis c.p.p., laddove prevede che il giudice, quando non sia possibile decidere immediatamente - espressione di .cui non sono chiaramente individuati i. presupposti, ma sufficientemente ampia ed onnicomprensiva - debba fissare una udienza apposita successiva, e, al comma successivo, che possa innestarsi una procedura partecipata, in cui, al fine di decidere sulla pena, nonché al fine della determinazione degli obblighi e delle prescrizioni relative, il giudice possa acquisire dall'ufficio di esecuzione penale esterna e, se del caso, dalla polizia giudiziaria, tutte le informazioni ritenute necessarie. Una interpretazione che neppure trova fondamento nel predetto Protocollo, pure richiamato a supporto del diniego di sostituzione, il quale se, per un verso, stabilisce che la indisponibilità della procura speciale - nella specie dipesa dal tardivo conferimento al legale del mandato difensivo - non è motivo di necessario differimento dell' udienza, nondimeno non vieta, ed anzi consente, che il giudice lo conceda. Né dal Protocollo potrebbero discendere conseguenze sanzionatorie vincolanti, trattandosi di un atto di intesa a base locale, apprezzabile modello di cooperazione tra soggetti istituzionali ai fini di accelerare e razionalizzare la procedura di sentencing, ma il cui contenuto si risolve solo in uno schema operativo per l'applicazione delle dette sanzioni.

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