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Sovraffollamento carcerario: i criteri per superare la «forte presunzione» di trattamento inumano

Autore: Giuseppe Molfese
Data: 19 Marzo 2024

Con sentenza n. 11561 dell’8 febbraio-19 marzo 2024, la prima sezione penale della Corte di Cassazione ha affermato che l'art. 35-ter Ord. Pen., è stato introdotto dall'art. 1, comma 1, D.L. 26 giugno 2014, n. 92, convertito dalla L. 11 agosto 2014, n. 117, all'indomani della sentenza della Corte EDU, 8 gennaio 2013, Torreggiani e altri contro Italia. La Corte europea, pur lasciando impregiudicate le modalità di attuazione delle sue prescrizioni, ha fatto riferimento ad altra precedente decisione (Corte EDU, 10 gennaio 2012, Ananyev e altri contro Russia) in cui, trattando un caso di sovraffollamento carcerario, ha considerato adeguata una tipologia di rimedio compensativo che si risolveva nella riduzione della pena da scontare (v. anche: Corte EDU, 16 settembre 2014, Stella e altri contro Italia). Si è così definito il "rimedio risarcitorio" di cui al suddetto art. 35-ter Ord.pen. a tutela di chi sia stato detenuto in condizioni tali da violare l'art. 3 della CEDU, ratificata con L. 4 agosto 1955, 2 n. 848. Tra gli indicatori, che rivelano una condizione di detenzione non conforme all'art. 3 della CEDU, vi è il sovraffollamento carcerario e, dunque, la necessità di definire lo spazio minimo disponibile, indicato dalla Corte EDU in tre metri quadrati per ciascun detenuto nella cella di assegnazione e quello di individuare in concreto i criteri per determinarlo. Al riguardo è centrale la decisione della Corte EDU, Grande Camera (GC), 20 ottobre 2016, Mursic c. Croazia, in cui la Corte ha ritenuto che la violazione dell'articolo 3 della Convenzione, a causa dell'insufficienza di spazio personale a disposizione dei detenuti, può sussistere in assenza di una delle seguenti condizioni: disponibilità di posto letto individuale; fruibilità di almeno tre metri quadrati di superficie pro capite; possibilità di spostarsi liberamente fra gli arredi della cella. L'assenza di una di tali condizioni genera una "forte presunzione" di detenzione non conforme al divieto di trattamento degradante. Non poche decisioni della Corte EDU hanno riconosciuto la violazione del divieto posto dall'art. 3 della CEDU, laddove lo spazio disponibile per ciascun detenuto in una cella collettiva fosse risultato inferiore a tre metri quadrati (Corte EDU: 22 ottobre 2009, Orchowski c. Polonia, § 122; 10 gennaio 2012, Ananyev and Others, cit., § 145; 10 marzo 2015, Varga and Others c. Ungheria, § 75). Il metodo di calcolo da adottare nella misurazione del suddetto spazio non deve comprendere la superficie occupata dai servizi sanitari; va, invece, incluso quello occupato dai mobili, secondo la citata sentenza della Grande camera, fermo restando che «L'important est de determiner si les detenus avaient la possibilité de se mouvoir nornnalement dans la cellule» (Corte EDU, GC, cit., § 114). Quanto ai criteri per superare la "forte presunzione" di trattamento inumano, in mancanza delle condizioni sopra indicate, essi sono stati indicati dalla stessa sentenza nella: brevità della restrizione in spazio angusto; nella sufficiente libertà di movimento fuori dalla stanza con attività adeguate; nei requisiti generali di detenzione dignitosi e nell'assenza di altri elementi che aggravino le condizioni restrittive. Il contenuto dell'interpretazione offerta dalla Corte EDU, è interpretazione normativizzata nell'ordinamento interno dall'art. 35-ter Ord. Pen. ed è stato recepito dalla giurisprudenza della Corte di cassazione. Si è ribadito l'indiscusso principio, secondo cui lo spazio pro capite non deve essere inferiore a tre metri quadrati. Lo spazio deve essere inteso come superficie disponibile, tale da assicurare a ciascun detenuto, affinché le modalità di restrizione siano rispettose della sua dignità, il normale movimento nella cella. Vanno, dunque, detratti, il letto (Cass. pen., sez. I, 9 settembre 2016, n. 52819; Cass. pen., sez. I, 16 novembre 2016, n. 40520 e, se a castello, Cass. pen., sez. I, 17 novembre 2016, n. 16418; già, in precedenza, Cass. pen., sez. VII, 18 novembre 2015, n. 3202; in senso conforme anche: Cass. pen., sez. III, 7 dicembre 2017, n. 29323) e gli arredi stabilmente infissi. Non sono tali, al contrario, quelli rimuovibili o che essendo mobili risultano anche serventi all'esplicazione di attività quotidiane (sgabelli o tavolini) che non sono invece detraibili (Cass. pen., sez. I, 17 novembre 2016, n. 13124; Cass. pen., sez. I, 17 novembre 2016, n. 12338; Cass. pen., sez. I, 16 maggio 2017, n. 39245; Cass. pen., sez. IV, 17 agosto 2017, n. 39207; Cass. pen., sez. I, 26 maggio 2017, n. 41211. In questa logica la giurisprudenza più recente ha avuto modo di sottolineare che in tema di rimedi risarcitori nei confronti di soggetti detenuti o internati, previsti dall'art. 35-ter Ord. pen, i fattori compensativi, costituiti dalla breve durata della detenzione, dalle dignitose condizioni carcerarie, dalla sufficiente libertà di movimento, al di fuori della cella mediante lo svolgimento di adeguate attività, se congiuntamente ricorrenti, possono permettere di superare la presunzione di violazione dell'art. 3 della CEDU derivante dalla disponibilità nella cella collettiva di uno spazio minimo individuale inferiore a tre metri quadrati, mentre, nel caso di disponibilità di uno spazio individuale compreso fra i tre e i quattro metri quadrati, i predetti fattori compensativi concorrono, unitamente ad altri di carattere negativo, alla valutazione unitaria delle condizioni complessive di detenzione. Ancora la Suprema Corte ha affermato il principio di diritto secondo cui: "Nella valutazione dello spazio minimo di tre metri quadrati si deve avere riguardo alla superficie che assicura il normale movimento e, pertanto, vanno detratti gli arredi tendenzialmente fissi al suolo, tra cui rientrano i letti a castello" (par. 18) Cass. pen., sez. un., 24 settembre 2020, n. 6551). Questi principi hanno diretto rilievo, ai fini della ricostruzione del contenuto precettivo dell'art. 35-ter Ord. pen. Il contenuto precettivo della norma è determinato per relationem, tramite un meccanismo di rinvio mobile, agli indirizzi interpretativi elaborati dalla Corte EDU in ordine all'art. 3 della Convenzione, in quanto le decisioni della Corte EDU hanno il compito non solo di dirimere le controversie di cui è investita, ma, in modo più ampio, di chiarire, salvaguardare e approfondire le norme della Convenzione, svolgendo un ruolo chiave nella definizione e concretizzazione dei diritti e delle libertà elencati nel testo, con formule generalmente aperte. Si tratta del primo caso di espressa integrazione diretta del sistema normativo interno ai contenuti della giurisprudenza sovranazionale, elevati, in questa materia, a parametro normativo, vincolante erga omnes per l'interpretazione e qualificazione della condotta. In base a tale scelta legislativa, pertanto, gli orientamenti tratti dalle pronunce della Corte EDU non assolvono all'ordinaria finalità di orientamento dell'interpretazione della disposizione, cui è tenuto ordinariamente il giudice nazionale in virtù dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali riconoscenti del nostro ordinamento (art. 117 Cost.), ma, tramite una clausola di rinvio formale, fanno ingresso nell'ordinamento quale fonte cui è demandata la determinazione delle fattispecie. Al giudice interno sono imposte la costante conoscenza e analisi delle decisioni emesse dalla Corte EDU sul tema in questione, poiché oggetto della verifica ex art. 35-ter Ord. pen. sono soprattutto le caratteristiche dell'offerta trattamentale da parte dell'Amministrazione penitenziaria in relazione al particolare vissuto del soggetto interessato (Corte EDU, Grande Camera 28 febbraio 2008, Scadi c/Italia). Dalle premesse indicate la giurisprudenza di questa Corte ha delineato i fattori compensativi (costituiti dalla breve durata della detenzione, dalle dignitose condizioni carcerarie, dalla sufficiente libertà di movimento al di fuori della cella mediante lo svolgimento di adeguate attività), che, se congiuntamente ricorrenti, possono permettere di superare la presunzione di violazione dell'art. 3 della CEDU derivante dalla disponibilità nella cella collettiva di uno spazio minimo individuale inferiore a tre metri quadrati; là dove, al contrario, mentre, la superficie individuale sia compresa fra i tre e i quattro metri quadrati, i predetti fattori compensativi concorrono, unitamente ad altri di carattere negativo, alla valutazione unitaria delle condizioni complessive di detenzione (Cass. pen., sez. un., 24 settembre 2020, n. 6551). Tendenzialmente si è, ancora, spiegato che vanno detratti, per il calcolo di esso spazio, gli arredi fissi o non facilmente amovibili tra i quali, appunto, il letto cd. 'a castello'.

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