Con sentenza
del 5 dicembre 2023, relativa alla causa Ilerde & altri c. Turchia, la
Seconda Sezione della Corte EDU si è pronunciata riguardo il rispetto del
divieto - sancito dall’art 3 della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti
dell’Uomo e delle Libertà fondamentali - di tortura e di trattamento disumano o
degradante.
Nel caso in
questione la Corte, rievocando i precedenti casi Vučković & altri c.Serbia
((obiezioni preliminari) [GC], n.17153/11, 25 Marzo 2014) e Gherghina c.
Romania ([GC], n. 42219/07, §§ 83-88, 9
Luglio 2015), che riassumono i principi generali in ipotesi di esaurimento dei
mezzi di ricorso interno, ha ribadito che mentre l’art. 35 § 1 della
Convenzione deve essere applicato senza un eccessivo formalismo, normalmente è
richiesto che le denunce da avanzare alla Corte debbano prima essere portate
davanti ai giudici nazionali competenti. Tuttavia il mancato esaurimento dei
rimedi interni non può essere contestato al ricorrente se, nonostante
l’inosservanza delle forme prescritte dalla legge, l’autorità competente ha
comunque esaminato il contenuto della denuncia.
La Corte ha
ribadito che affinché il diritto fondamentale di protezione contro la tortura e
trattamenti disumani sia effettivo, è necessario che vi siano rimedi preventivi
e compensativi complementari.
A tal fine è
opportuno che gli Stati Parti prevedano, oltre al rimedio compensativo, un
meccanismo effettivo per cessare prontamente tale trattamento; in caso
contrario, la prospettiva futura di un risarcimento legittimerebbe una violazione
grave dell’art 3 CEDU (Yarashonen c. Turchia, n. 72710/11, § 61, 24 giugno
2014).
Ai fini
dell’esaurimento dei mezzi di ricorso interni di cui art. 35 della Convenzione,
la Corte ha dichiarato che in mancanza di rimedi preventivi efficaci, l’uso di
un rimedio compensativo dopo la cessazione dei trattamenti risulta un rimedio
effettivo. (Bizjak c. Slovenia, n. 25516/12, § 28, 8 Luglio 2014; J.M.B.&
altri c. Francia, n. 9671/15, 30 January 2020). Tuttavia se è stato previsto un
rimedio preventivo, i ricorrenti in detenzione, per regola non possono essere
esentati dall’obbligo di utilizzarlo (Sukachov c. Ukraine, n.14057/17, § 113, 30
Gennaio 2020).
La Corte ha
rilevato che i principi generali in relazione al sovraffollamento erano stati recentemente
stabiliti nel caso Muršić c. Croazia ([GC], n. 7334/13, §§ 137-41, 20 Ottobre
2016), in particolare quando lo spazio personale disponibile per un detenuto
sia inferiore ai 3 mq della superficie degli alloggi condivisi nelle carceri,
la mancanza di spazio personale è considerata una grave violazione dell’art 3
della Convenzione. (ibid., § 137).
L’onere della
prova è a carico del convenuto Governo, il quale può confutare tale presunzione
dimostrando in particolare che: la riduzione dello spazio personale entro i 3
mq fosse breve e occasionata; tali periodi erano accompagnati da una
sufficiente libertà di movimento al di fuori della cella; il richiedente sia
stato confinato in una struttura di detenzione appropriata (ibid., § 138).
Infine, la Corte ha sottolineato che un detenuto, pur perdendo il diritto alla libertà, continua a godere di tutti gli altri diritti e libertà fondamentali, tra cui il rispetto della vita privata e familiare - ai sensi dell’art 8 della Convenzione - e dunque è necessario che qualsiasi limitazione di tali diritti sia giustificata.
Ad ogni modo la Convenzione non garantisce ai detenuti il diritto di scegliere il loro posto di detenzione e il fatto che questi siano lontani dalle loro famiglie è una conseguenza inevitabile della privazione della libertà. Tuttavia detenere un individuo in un posto lontano a tal punto da rendere difficile o addirittura impossibile per i familiari poterlo visitare, è incompatibile con quanto stabilito dall’art 8 della Convenzione (Vintman c. Ukraine n. 28403/05, 23 ottobre 2014).
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