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Il concorso del familiare nel reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone

Autore: Valerio de Gioia
Data: 29 Gennaio 2024

Con sentenza n. 3472 del 5 dicembre 2023-29 gennaio 2024, la seconda sezione penale della Corte di Cassazione ha affermato che il concorso del terzo nel reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone è configurabile nei soli casi in cui questi si limiti ad offrire un contributo alla pretesa del creditore, senza perseguire alcuna "diversa ed ulteriore" finalità (Cass. pen., sez. un., 16 luglio 2020, n. 29541).

Con specifico riferimento alla presunzione di condivisione dell'interesse alla soddisfazione del diritto da parte dei familiare del titolare, nella sentenza delle sezioni unite si legge: «la qualificazione come esercizio arbitrario delle proprie ragioni (a seconda dei casi, con violenza sulle cose oppure con violenza o minaccia alle persone) delle condotte poste in essere sponte da terzi non appartenenti al nucleo familiare del creditore (coniuge, figlio, genitore, come emerso nella casistica giurisprudenziale innanzi riepilogata), che si siano attivati di propria iniziativa, senza previo concerto o comunque non d'intesa con il creditore, comporterebbe l'immotivata applicazione del previsto regime favorevole, che trova giustificazione, anche quanto al rispetto del principio di uguaglianza ex art. 3 Cost., proprio e soltanto nella contrapposizione tra un presunto creditore ed un presunto debitore, che risolvono la propria controversa senza adire le vie legali, pur potendo farlo (il creditore ricorrendo al giudice civile, il debitore sporgendo querela). Nel caso in cui il presunto creditore sia del tutto estraneo all'iniziativa del terzo negotiorum gestor, non potrà, quindi, essere configurato un reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni» (Cass. pen., sez. un., 16 luglio 2020, n. 29541). Sul punto deve essere chiarito che le Sezioni Unite prospettano una "presunzione" di condivisione dell'interesse alla soddisfazione privata del diritto da parte dei familiari stretti ("coniuge", "figli" e "genitori") sempre a condizione che non emergano prove indicative del fatto che i familiari agiscano, non ad esclusivo supporto del titolare del diritto, ma per un interesse proprio. Si ritiene, cioè, che il concorso del "familiare stretto" nella condotta di esercizio arbitrario di "ragioni" discendenti dalla sussistenza un diritto azionabile in giudizio possa essere riconosciuto solo quando "non" emerga un interesse proprio ed ulteriore di tale familiare. Pertanto il vincolo parentale non ha rilevanza autonoma, ma è solo "uno" dei possibili elementi indicativi del concorso nel reato di esercizio arbitrario, che deve essere valutato secondo le ordinarie regole probatorie e dunque della sussistenza di eventuali mandati o accordi tra il titolare del diritto ed il familiare. A ciò si aggiunge che, per potersi configurare la fattispecie dell'esercizio arbitrario delle proprie ragioni, è necessario che l'azione aggressiva sia esercitata da chi è titolare del diritto azionabile in giudizio (o dal terzo che condivide l'interesse alla soddisfazione senza averne alcuno proprio) verso chi è nelle condizioni di soddisfarlo; se l'aggressione è, invece rivolta verso terzi, estranei a tale rapporto, ovvero verso coloro che non potrebbero essere convenuti in un ipotetico giudizio, l'azione non può essere considerata come diretta a far valere ipotetiche ragioni, ma deve essere qualificata come estorsione. Sul punto le Sezioni Unite hanno autorevolmente affermato che «risulta evidente che l'agente non potrebbe azionare in giudizio la sua pretesa chiamando in causa, in garanzia, e senza titolo alcuno, i terzi oggetto di violenza o minaccia. Come già correttamente ritenuto, in più occasioni, dalla Suprema Corte, è, pertanto, configurabile, il delitto di estorsione nei casi in cui l'agente abbia esercitato la pretesa con violenza e/o minaccia in danno di un terzo assolutamente estraneo al rapporto obbligatorio esistente inter partes, dal quale scaturisce la pretesa azionata, per costringere il debitore ad adempiere (Cass. pen., sez. II, 6 maggio 2014, n. 33870: fattispecie in cui il creditore ed i coimputati avevano rivolto nei confronti del debitore gravi minacce in danno del figlio e della moglie; Cass. pen., sez. II, 20 dicembre 2017, n. 5092), poiché essa non sarebbe tutelabile dinanzi all'Autorità giudiziaria, risultando in concreto diretta a procurarsi un profitto ingiusto, consistente nell'ottenere il pagamento del debito da un soggetto estraneo al sottostante rapporto contrattuale (Cass. pen., sez. II, 16 gennaio 2014, n. 16658 e Cass. pen., sez. II, 28 ottobre 2015, n. 45300, entrambe in fattispecie nelle quali era stata usata violenza in danno del padre del debitore, per costringerlo ad adempiere il debito del figlio)» (Cass. pen., sez. un., 16 luglio 2020, n. 29541).

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