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Il diritto all’ottenimento della quota del trattamento di fine rapporto spettante all’ex coniuge

Autore: Giovanna Spirito
Data: 18 Dicembre 2023

Con ordinanza n. 35308 del 18 dicembre 2023, la prima sezione civile della Corte di Cassazione ha ricordato che la ratio dell’art. 12-bis, comma 1, L. n. 898 del 1970, è quella di correlare il diritto alla quota del trattamento di fine rapporto alla percezione dell’assegno divorzile (tra le tante, v. Cass. civ., sez. I, 6 giugno 2011, n. 12175). Alla base della disposizione normativa si rinvengono profili assistenziali, evidenziati dal fatto che la disposizione presuppone la spettanza dell’assegno divorzile, ma anche compensativi, legati all’importanza data allo svolgimento del rapporto di lavoro durante la vita matrimoniale. La finalità, in sintesi, è quella di attuare una partecipazione, seppure posticipata, alle fortune economiche costruite insieme dai coniugi, finché il matrimonio è durato. In ordine al momento in cui nasce il diritto all’ottenimento della quota del trattamento di fine rapporto spettante all’ex coniuge è consolidata l’opinione della giurisprudenza, secondo la quale tale diritto sorge, e può essere azionato, quando cessa il rapporto di lavoro (v. tra le tante Cass. civ., sez. lav., 6 febbraio 2018, n. 2827 e Cass. civ., sez. I, 27 febbraio 2020, n. 5376; cfr. Cass. civ., sez. I, 12 novembre 2021, n. 34050). In sintesi, insieme al diritto del lavoratore a tale trattamento, sorge anche il diritto dell’ex coniuge a percepire una sua quota, in presenza degli altri presupposti dall’art. 12 bis l. n. 898 del 1970 e il diritto alla quota del trattamento di fine rapporto, che matura con l’insorgenza del diritto a tale trattamento da parte dell’altro coniuge, diviene esigibile quando quest’ultimo percepisce il relativo trattamento (cfr. Cass. civ., sez. I, 14 novembre 2008, n. 27233 e Cass. civ., sez. I, 23 marzo 2004, n. 5719). Non è, però, necessario che l’importo su cui calcolare la quota di spettanza sia già incassato al momento della proposizione della relativa domanda, essendo sufficiente che sia esistente al momento della decisione (Cass. civ. 24403/2022). Occorre tuttavia che la percezione del TFR da parte dell’ex coniuge intervenga dopo la proposizione della domanda di divorzio. Sempre la Suprema Corte (Cass. civ. 24403/2022) ha chiarito che «il diritto del coniuge divorziato, che sia anche titolare dell'assegno di cui all'art. 5, comma 6 della l. n. 898 del 1970, ad ottenere la quota del trattamento di fine rapporto dell'ex coniuge sorge nel momento in cui quest'ultimo matura il diritto a percepire detto trattamento e, dunque, al tempo della cessazione del rapporto di lavoro, anche se il relativo credito è esigibile solo quando - e nei limiti in cui - l'importo è effettivamente erogato; una volta cessato il rapporto di lavoro, non ha, dunque, alcuna incidenza sulla debenza della menzionata quota la presentazione, nel corso del giudizio instaurato per la relativa liquidazione, della richiesta di revoca dell'assegno divorzile, il cui eventuale accoglimento, anche se disposto dalla data della domanda, è successivo all'insorgenza del diritto previsto dall'art. 12 bis della L. n. 898 del 1970». La Corte Costituzionale, nella sentenza del 1999, n. 419, nel ritenere infondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 9, terzo comma, L. n. 898 del 1970, nella parte in cui prevede esclusivamente la durata del «rapporto» matrimoniale, quale criterio di ripartizione della pensione di reversibilità tra divorziato e coniuge superstite, precisando che non si tratta, in tale ipotesi, tuttavia di un criterio rigido matematico, essendone rimessa la valutazione al giudice, ha evidenziato che «quando il legislatore ha inteso stabilire in modo rigido e automatico i criteri per la determinazione di prestazioni patrimoniali dovute all’ex coniuge, ha usato una diversa espressione testuale, direttamente significativa della percentuale di ripartizione e del periodo da considerare; ciò che avviene, ad esempio, per l’indennità di fine rapporto, ripartita tra il coniuge e l’ex coniuge in una percentuale determinata ed in proporzione agli anni in cui il rapporto di lavoro che vi dà titolo è coinciso con il matrimonio (art. 12-bis della legge n. 898 del 1970)». Sempre con riferimento all’art.12-bis L. div., la Consulta, nella sentenza n. 23/1991 ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale della norma (il giudice remittente aveva evidenziato che la disposizione attribuiva all' ex-coniuge - ove l'intervallo tra separazione e divorzio sia lungo - una percentuale dell'indennità, pari al quaranta per cento dell'indennità totale riferibile agli anni in cui il rapporto è coinciso col matrimonio, sproporzionata al suo effettivo contributo alla conduzione della famiglia), sottolineando come la durata del matrimonio è un parametro cui è attribuito rilievo centrale nella legge sul divorzio, quale modificata dalla Novella del 1987, quanto alla quota di indennità di fine rapporto, all’assegno divorzile e per la ripartizione della pensione di reversibilità, e che era del tutto ragionevole che il legislatore, una volta fatta la scelta di attribuire la quota dell'indennità in una percentuale predeterminata, si fosse ancorato «ad un dato giuridicamente certo ed irreversibile, quale la durata del matrimonio, piuttosto che ad uno incerto e precario come la cessazione della convivenza». La Corte costituzionale è stata chiamata a valutare profili di incostituzionalità della norma de qua, in relazione al mancato diritto a percepire l'indennità di fine rapporto da parte del coniuge separato (e pertanto non ancora divorziato, né essendosi già proposta una domanda di divorzio) e, con ordinanza 19 novembre 2002, n. 463, ha respinto il ricorso, osservando: « che la separazione personale costituisce una fase del rapporto coniugale che può protrarsi nel tempo senza mai approdare allo scioglimento del matrimonio (o alla cessazione dei suoi effetti civili) ed è reversibile (v. sentenza n. 23/1991 e ordinanza n. 491/2000); che lo scioglimento del matrimonio ha pertanto caratteristiche ed esigenze di regolamentazione diverse da quelle che informano la disciplina dei rapporti patrimoniali tra coniugi durante la fase della separazione personale; che, d'altra parte, l'istituto di cui all'art. 12- bis della legge n. 898/1970 –  introdotto dalla riforma del 1987 per fornire un ulteriore riconoscimento “al contributo personale ed economico dato dall'ex coniuge alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune” ad entrambi i coniugi, nell'intento di attribuire maggiore protezione al coniuge economicamente più debole (v. sentenza n. 23/1991) — per come è stato strutturato presuppone, per la determinazione sia dell'an che del quantum debeatur, la configurabilità del credito già al momento della percezione dell'indennità di fine rapporto da parte del coniuge obbligato; pertanto l'estensione al coniuge separato della misura patrimoniale in oggetto comporterebbe l'emissione da parte di questa Corte di una pronuncia di tipo additivo volta ad introdurre, in mancanza di una soluzione costituzionalmente obbligata, un istituto diverso da quello cui si riferiscono le attuali censure, con evidente e indebita intromissione nella sfera di attribuzioni riservata alla discrezionalità del legislatore» (cfr. anche sentenza della Corte cost., 6 luglio 2001, n. 237). Sempre la Corte Costituzionale, con la recente sentenza 28 gennaio 2022, n. 25, investita della questione di legittimità costituzionale, sollevata con ordinanza del 20 ottobre 2020 dalla Corte d'Appello di Salerno, in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost., degli artt. 9 comma 2, 12-bis comma 1 della legge 1 dicembre 1970, n. 898 e dell'art. 5 della legge 28 dicembre 2005, n. 263, nella parte in cui non prevedono, ai fini della corresponsione della pensione di reversibilità e di una quota dell'indennità di fine rapporto, che il requisito della titolarità dell'assegno divorzile, in caso di morte dell'obbligato intervenuta successivamente a una sentenza parziale di divorzio, ma prima della definitiva determinazione dell'assegno, sussista anche in presenza di provvedimenti provvisori presidenziali che riconoscano provvidenze economiche all'ex coniuge, ha dichiarato l'inammissibilità della questione per essere contradditoria la motivazione sulla rilevanza della questione, rilevando che: a) al pari dell'art. 9 comma 2 l. 898/1970, che riconosce il diritto alla pensione di reversibilità per il coniuge divorziato titolare dell'assegno, la pretesa di una quota del TFR ai sensi dell'art. 12- bis comma 1 l. 898/1970 dipende (anche) dall'avvenuto riconoscimento del diritto all'assegno divorzile, e dunque assolve alla stessa predetta funzione solidaristica; b) proprio al fine di evitare che, nell'ambito di processi relativi a pretese previdenziali, coinvolgenti gli enti obbligati a tali prestazioni, possano porsi, tramite accertamenti incidenter tantum, questioni inerenti alla spettanza in astratto del diritto all'assegno di divorzio, l'art. 5 della legge n. 263 del 2005, ha previsto che per titolarità dell'assegno deve intendersi l'avvenuto riconoscimento dell'assegno medesimo da parte del tribunale ai sensi dell'art. 5 l. 898/970, salva restando l'equiparazione al provvedimento giudiziale della convenzione di negoziazione assistita; c) l’ordinanza di rimessione non aveva adeguatamente sviluppato le implicazioni del decesso dell'ex coniuge forte, nelle more del processo per divorzio in rapporto al contrasto giurisprudenziale in merito alla prosecuzione del processo nelle ipotesi predette (contrasto successivamente risolto dalle Sezioni unite con sentenza n. 20494/2022: «In tema di divorzio, nel caso di passaggio in giudicato della pronuncia parziale sullo "status", con prosecuzione del giudizio al fine dell'attribuzione dell'assegno divorzile, il venir meno dell'ex coniuge nei confronti del quale la domanda era stata proposta nel corso del medesimo non ne comporta la declaratoria di improseguibilità, ma il giudizio può proseguire nei confronti degli eredi, per giungere all'accertamento della debenza dell'assegno dovuto sino al momento del decesso»). Inoltre, la Suprema Corte ha chiarito (Cass. civ. 18539/2013) che «Nel giudizio di divorzio il riconoscimento dell'assegno non è precluso né dall'autosufficienza economica del richiedente, occorrendo soltanto che quest'ultimo non disponga di mezzi adeguati alla conservazione del precedente "standard" di vita, né dall'addebito della separazione, che può incidere soltanto sulla misura dell'assegno, per effetto della valutazione demandata al giudice di merito in ordine alle cause del venir meno della comunione materiale e spirituale di vita tra i coniugi». In sostanza, ai fini del riconoscimento dell’assegno di divorzio, non spiega alcuna incidenza l'addebito della separazione, il quale viene in rilievo esclusivamente ai fini della valutazione delle ragioni della decisione, intese con riferimento ai comportamenti che hanno cagionato il fallimento dell'unione (cfr. Cass. civ., sez. I, 11 giugno 2005, n. 12382; 24 marzo 1994, n. 2872), che costituiscono uno dei parametri per la liquidazione dell'importo dovuto, unitamente alle condizioni dei coniugi, al contributo personale ed economico dato da ciascuno di essi alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ognuno o di quello comune, ed al reddito di entrambi. E la valutazione di tali elementi, da effettuarsi anche in rapporto alla durata del vincolo, rappresenta «una fase ulteriore rispetto a quella del riconoscimento del diritto all'assegno, ed agisce ordinariamente come fattore di moderazione e diminuzione della somma considerata in astratto, potendo valere ad azzerarla soltanto in ipotesi estreme, quando la conservazione del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio finisca per risultare incompatibile con detti elementi di quantificazione» (si è quindi cassata la sentenza impugnata che, dato atto dell'avvenuta pronuncia della separazione con addebito ad entrambi i coniugi, aveva affermato che la domanda di riconoscimento dell'assegno poteva fondarsi esclusivamente sullo stato di bisogno del richiedente, osservandosi che «il legame in tal modo istituito tra la pronuncia di addebito e lo stato di bisogno è infatti configurabile esclusivamente in riferimento al giudizio di separazione», mentre, in sede di divorzio occorre procedere alla verifica, ai fini del parametro del comportamento tenuto dai coniugi, della «dinamica complessiva dei rapporti interni al nucleo familiare, anche successiva alla cessazione della convivenza, nel quadro di un'analisi ponderata e bilaterale che, investendo anche il comportamento tenuto dal coniuge onerato, l'incidenza di difficoltà oggettive o l'intervento di eventuali agenti perturbatori, consenta di cogliere la portata del contributo concretamente fornito da ciascuna delle parti al fallimento dell'unione»). Già prima si era chiarito che diversi sono gli effetti che la pronuncia dell’addebito produce nella separazione personale e nel divorzio (Cass. 8153/1987: «Nel giudizio di separazione dei coniugi, a differenza che nel giudizio di divorzio, ove le ragioni della decisione e più genericamente le condizioni dei coniugi assumono rilievo ai fini della determinazione dell'assegno insieme con numerosi altri elementi, le condizioni alle quali è sottoposto il diritto al mantenimento ed il suo concreto ammontare, consistono soltanto nella non addebitabilità della separazione al coniuge nel cui favore viene disposto il mantenimento, nella mancanza nel beneficiario di adeguati redditi propri, e nella sussistenza di una disparità economica fra i due coniugi, con la conseguenza che al coniuge cui non sia stata addebitata la separazione, il mantenimento spetta nel concorso delle altre condizioni, a prescindere dal fatto che la separazione sia stata pronunciata con o senza addebito alla controparte»; conf. Cass. civ. 5251/2017). Ogni questione, quindi, sulla spettanza e misura dell’assegno di divorzio a favore del coniuge cui era stata addebitata la separazione doveva essere fatta valere in sede di divorzio, non in quella successiva di riconoscimento del diritto per il coniuge titolare di assegno divorzile a quota dell’indennità di fine rapporto percepita dall’ex coniuge.

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