Con sentenza n. 5 del 18 gennaio 2024, la Corte
Costituzionale ha ripercorso l’evoluzione dell’istituto della adozione di
persone maggiorenni.
Fino ai primi anni del ‘900 l’adozione ha conservato, mutuandola dal diritto romano, la natura di strumento della tradizione aristocratica e dell’alta borghesia, utilizzato da coloro che non avessero discendenti ai quali trasmettere il proprio cognome e il proprio patrimonio, ed avessero raggiunto un’età in cui presumibilmente non avrebbero potuto più averne, e si è fondata sul consenso scambiato tra persone adulte. Fu solo attraverso la legislazione speciale (in particolare, il R.D.L. 31 luglio 1919, n. 1357, recante «Norme per l’adozione degli orfani di guerra e dei nati fuori di matrimonio nel periodo della guerra», convertito, con modificazioni, nella L. 6 dicembre 1925, n. 2137), con norme di favore intervenute in aiuto dei minori rimasti senza famiglia e senza soccorso, in seguito ai grandi rivolgimenti causati dal primo conflitto mondiale, che si cominciò a prendere in considerazione la esigenza di allevare ed educare il figlio adottivo in seno alla nuova famiglia, esigenza corrispondente, oltre che a finalità filantropico-assistenziali, all’intento di supplire e meglio imitare la natura. Si consentì in tal modo «l’adozione degli orfani di guerra e dei trovatelli nati in quel periodo che non avessero raggiunto il limite di età (e quindi senza il loro consenso)» (Corte Cost. sentenza n. 11 del 1981, punto 4 del Considerato in diritto), in deroga alla disciplina del codice civile del 1865, che fissava per gli adottandi il limite dei diciotto anni. Solo con la promulgazione del codice civile del 1942 si introdusse in via generale la possibilità di adottare minori attraverso una disciplina che, unificata, era riferibile anche ai fanciulli a partire dagli otto anni di età. Si trattava, peraltro, pur sempre, di un contratto tra il genitore del bambino da adottare e l’adottante, che non doveva necessariamente essere coniugato: l’obiettivo continuava ad essere essenzialmente quello di garantire la successione a chi non avesse discendenti. Il divario minimo di età di diciotto anni tra l’adottante, di età non inferiore ai cinquant’anni, e l’adottando, fissato dal richiamato art. 291 c.c., incontrava una possibilità di deroga laddove si stabiliva che in caso di «eccezionali circostanze […] la Corte d’appello può autorizzare la adozione se l’adottante ha raggiunto almeno l’età di anni quaranta e se la differenza di età tra l’adottante e l’adottando è di almeno sedici anni». Si era dinanzi ad una previsione che, non contenuta nel Progetto ed inserita nel testo definitivo, venne motivata nella relazione del Guardasigilli con riferimento sia alla facoltà riconosciuta alla Corte d’appello di «valutare le circostanze del caso» (sentenza n. 44 del 1990, punto 3 del Considerato in diritto), sia alla circostanza che «la differenza minima di sedici anni» valeva pur sempre a salvare il tradizionale principio dell’adoptio imitatur naturam. Con la legge 5 giugno 1967, n. 431 (Modifiche al titolo VIII del libro I del Codice civile “Dell’adozione” ed inserimento del nuovo capo III con il titolo “Dell’adozione speciale”), in accoglimento di istanze che avevano evidenziato la necessità di una disciplina specifica per l’adozione di minori, da diversificare rispetto a quella dettata per i maggiorenni, fu introdotto, nel codice civile, l’istituto dell’adozione speciale con efficacia legittimante. Si trattava di un «complesso normativo, chiaramente indirizzato alla tutela dell’interesse del minore infraottenne in stato di abbandono» (Corte Cost. sentenza n. 11 del 1981, punto 4 del Considerato in diritto) che, derivato dalla Convenzione europea sull’adozione dei minori, firmata a Strasburgo il 24 aprile 1967, ratificata e resa esecutiva con legge 22 maggio 1974, n. 357, spostava in modo definitivo la disciplina dell’adozione sugli interessi dell’adottando e, attribuendo centralità alla figura del minore, giungeva ad equipararne la regolamentazione alla filiazione naturale. L’adozione ordinaria continuava ad applicarsi ai maggiorenni e ai minorenni a partire dagli otto anni, con il mantenimento della differenza minima d’età tra adottante ed adottando in diciotto anni e con la fissazione dell’età minima per adottare a trentacinque anni, limite riducibile, in casi eccezionali, a trenta anni. Il successivo e fondamentale snodo lungo il percorso di progressivo affrancamento dell’adozione dei minorenni da quella ordinaria si ebbe quindi con la legge n. 184 del 1983, con la quale la disciplina dell’adozione dei soggetti minori di età venne interamente trasferita al di fuori del codice civile. Con tale intervento normativo l’adozione del minore, quale nuova figura generale, diviene funzionale alla creazione di una famiglia per il fanciullo che ne sia privo. L’adozione determina la cessazione dei rapporti dell’adottato con la famiglia d’origine e l’acquisizione, in capo a lui, del nuovo status di figlio degli adottanti, i quali debbono essere tra loro coniugati da almeno tre anni, fermo il rispetto del divario di età con l’adottando di almeno diciotto anni e di non oltre quaranta. Si realizza così un duplice effetto sullo status dell’adottato, costitutivo ed estintivo, che «si collega al presupposto stesso dell’adozione: la dichiarazione di adottabilità fondata sullo stato di abbandono […] (art. 8, comma 1, della legge n. 184 del 1983)» (Corte Cost. sentenza n. 183 del 2023, punto 8.1. del Considerato in diritto). I predetti limiti di età sono stati incisi da ripetuti interventi di questa Corte (sentenze n. 283 del 1999, n. 349 del 1998, n. 303 del 1996 e n. 148 del 1992), che ne hanno in vario modo temperato la rigidità, al fine di scongiurare che dalla mancata adozione potesse derivare un danno grave e non altrimenti evitabile per il minore, fermo restando che la differenza di età dovesse restare compresa in quella che di solito intercorre tra genitori e figli. Il divario massimo di età è poi stato innalzato a quarantacinque anni dalla L. 28 marzo 2001, n. 149 (Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184, recante «Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori», nonché al titolo VIII del libro primo del codice civile), che ha previsto la generale derogabilità dei limiti di età, qualora il tribunale per i minorenni accerti appunto che dalla mancata adozione derivi un danno grave e non altrimenti evitabile per il minore. La legge n. 184 del 1983 ha regolato, all’art. 44, “casi particolari” di adozione di minori, che non versino in stato di abbandono e che non siano stati previamente dichiarati in stato di adottabilità. In tutti questi casi è stabilito che l’adottante superi di almeno diciotto anni l’età di colui che intenda adottare. Quest’ultima previsione, relativamente al caso dell’adozione pronunciata rispetto a minore che sia già figlio, anche adottivo, del coniuge dell’adottante (art. 44, comma 1, lett. b), è stata dichiarata costituzionalmente illegittima con la sentenza della Corte Costituzionale n. 44 del 1990, nella parte in cui non consentiva al giudice competente di ridurre, quando sussistano validi motivi per la realizzazione dell’unità familiare, l’intervallo di età di diciotto anni. Il legislatore si è conformato alla indicata pronuncia all’atto della riforma attuata con la legge n. 149 del 2001.
L’adozione dei maggiorenni resta invece regolata, dopo la riforma del 1983, dal codice civile e, riservata al rapporto tra gli adulti (nelle modifiche introdotte dagli articoli da 58 a 60 della legge n. 184 citata), non crea, a differenza dell’adozione del minore di età, una relazione di parentela con i discendenti dell’adottante (artt. 74, 300, comma 2, e 567, comma 2, c.c.) ed è revocabile (artt. da 305 a 309 c.c.).
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