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La clausola del contratto di associazione in partecipazione che riconosce, al termine del rapporto, il diritto dell’associato alla restituzione degli eventuali incrementi patrimoniali

Autore: Pierre de Gioia Carabellese
Data: 05 Gennaio 2024

Con ordinanza n. 308 del 5 gennaio 2024, la prima sezione civile della Corte di Cassazione ha affermato che l’associazione in partecipazione si qualifica per il carattere sinallagmatico tra l'attribuzione da parte di un contraente (associante) di una quota degli utili derivanti dalla gestione di una sua impresa e di un suo affare all’altro (associato) e l'apporto, da quest'ultimo conferito, che può essere di qualsiasi natura purché avente carattere strumentale per l'esercizio di quell'impresa o per lo svolgimento di quell'affare (cfr. Cass. civ. 22 giugno 2022, n. 20159; Cass. civ. 20 giugno 2018, n. 16198; Cass. civ. 21 giugno 2016, n. 12816; Cass. civ. 17 aprile 2014, n. 8955).

Nell’associazione in partecipazione non si ha, dunque, la formazione di un soggetto nuovo, né la costituzione di un patrimonio autonomo, né la comunanza dell’affare o dell’impresa; da ciò deriva che l’affare o l’impresa rimangono di esclusiva pertinenza dell'associante, a questi soltanto continuano ad appartenere tutti i mezzi per la conduzione dell'uno o dell'altra e tutti i relativi poteri di gestione e di decisione ed è questi solo che acquista i diritti ed assume le obbligazioni nei confronti dei terzi e che fa propri gli utili e subisce le perdite, senza alcuna partecipazione diretta ed immediata dell'associato.

La partecipazione dell’associato nell’affare o nell’impresa è solo mediata e si esplica, in caso di risultati positivi, nella forma del riconoscimento di un suo diritto di credito nei confronti dell’associante avente a oggetto la liquidazione della quota convenuta degli utili, mentre, in caso di risultati negativi, di un suo diritto a vedere circoscritta la sua responsabilità in misura corrispondente alla quota di partecipazione agli utili e, comunque, non superiore al valore dell’apporto.

Alla cessazione del contratto, una volta esaurite le relative attività liquidatorie, diviene esigibile il diritto alla restituzione dell'apporto, sempre che siano derivati utili. Poiché l'associato non partecipa direttamente all’affare o all’impresa o non ha, conseguentemente, un diritto immediato agli utili, egli non può pretendere che gli sia attribuita, quale utile, nel corso del rapporto o al suo termine, una parte dei beni eventualmente prodotti con l'attività associata, bensì soltanto che gli sia liquidata e pagata una somma di denaro corrispondente alla quota spettantegli di utili e all'apporto (cfr. Cass. civ. 24 giugno 2011, n. 13968; Cass. civ. 17 maggio 2001, n. 6757). 

Con particolare riferimento a una clausola del contratto di associazione in partecipazione che riconosce, al termine del rapporto, il diritto dell’associato alla restituzione (anche) degli eventuali incrementi patrimoniali che si dovessero verificare nel corso dell'attività dell'impresa, va richiamata la menzionata sentenza della Suprema Corte n. 13968 del 2011, la quale ha affermato che tale clausola risulta «completamente distonica rispetto alla disciplina dell'associazione in partecipazione» e che «l’argomento secondo cui l'art. 2553 c.c. non precluderebbe la possibilità di convenire la possibilità, per l'associato, di ottenere una quota corrispondente all'incremento dell'azienda e all'avviamento, prova troppo», dovendosi considerare che il riconoscimento di una quota del patrimonio dell'associante riflette lo schema tipico del rapporto societario e si colloca su un versante del tutto diverso rispetto alla figura disciplinata dagli artt. 2494 e ss. c.c.; tale decisione ha, inoltre, aggiunto che l'inserimento di una siffatta clausola, dal contenuto assolutamente atipico, viene a integrare «l'ipotesi del negozio complesso, al quale, secondo un orientamento pressoché unanime, deve applicarsi la disciplina del contratto la cui funzione, nella combinazione degli elementi, è in concreto prevalente», con la puntualizzazione che «gli elementi riconducibili al negozio non prevalente, nel rispetto dell'autonomia privata, non possono essere considerati privi di rilevanza giuridica, a condizione che non risultino incompatibili con la regolamentazione del contratto che funge da principale negozio di riferimento».

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